Linea costruttiva della poesia di Gozzano (1940)

«La Ruota», a. III, n. 3, giugno 1940, pp. 153-159; poi ripubblicato in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

Linea costruttiva della poesia di Gozzano

La poesia di Gozzano sembra da tempo costituire un punto chiaro, indiscusso nella nostra letteratura, e quella sua aura riposata, senza punte sembra sottrarla ad un giudizio di valore, alla contemporaneità critica, quasi come avviene di città in cui una certa agiatezza, la sicurezza di un periodo tranquillo del passato ci fanno scordare di giudicarle.

E sempre piú la poesia di Gozzano sembra l’ultima voce di un mondo poetico che si è precluso gli sviluppi simbolistici e si è documentato come una forma di attacco blando alla vita, di conoscenza poetica senza volontà di approfondimento: quasi l’ultimo rappresentante di una civiltà letteraria che la sua stessa poetica ha equivocamente avvicinato alla comprensibilità e alla problemistica borghese. Tale distinzione vien fatta piú propriamente per coloro che vedono unico segno di divisione tra passato e presente la ermeticità, la oscurità e non piuttosto una fondamentale diversità nel ricorso all’immagine, all’esercizio della lingua, delle sue funzioni rappresentative, musicali, suggestive. Ricordiamoci che in questo piú vero senso storico, Gozzano rientra invece nel processo tecnico della nuova poesia e ne segna uno dei momenti piú aperti e conclusi insieme: in uno svolgimento di problemi di stile, la sua espressione non è piú tutta nell’ambito Carducci, Pascoli, D’Annunzio, ma si avvia a forme di un impressionismo piú intimo, e per la poesia costituisce uno dei piú rari e completi risultati in quel periodo di ricca confusione che fu il primo Novecento. Certo, per usare un frasario per nulla spregevole, egli sa anche creare figure nette, tipi umani ben definiti, situazioni tagliate senza equivoco ed i suoi versi hanno fragranza e canto, e certo è in lui che tutti gli amatori piú intelligenti della poesia chiara trovano l’ultimo loro poeta; ma a noi pare che quella poesia vada tirata fuori da una possibile polemica intorno alla chiarezza e venga sentita nelle sue esigenze di costruzione, esaminata nel suo farsi, liberata dalle varie suggestioni di cui la moda l’ha caricata, facendone qualcosa da prendersi e sorbirsi senza risoluto e scrupoloso esame. Preveniamo che, a parte la bontà lirica e la suggestione sentimentale, questa poesia ha il dono di accrescersi nella memoria per un suo alone illustrativo che resiste, per un profumo che le cose e le situazioni trascinano con sé, un po’ come piú illegittimamente nel Fogazzaro e come non avviene nei contemporanei, urgente com’è in essi la trasposizione tutta sul piano lirico di ogni paesaggio che richiede altri occhi, altra memoria.

Per un esame che si ponga come riprova di una vita poetica ricostruita, non sempre è ugualmente necessario ripensare al materiale psicologico che nel poeta si trasforma in movimenti lirici, ma per Gozzano una limitazione del suo mondo umano, data la sua insistenza in proposito, dato che egli lo viene a porre spesso come punto di partenza immediato di una creazione poetica, va inevitabilmente fatta, arrivando anche alla esclusione di una suggestione puramente psicologica e alla deduzione di particolari simpatie del poeta.

Sebbene questo mondo gozzaniano sia stato spesso confuso con la sua poesia effettiva, e quindi ampiamente caratterizzato dai vari critici che in esso hanno visto di volta in volta un’ultima apparizione romantica, un raffinamento intellettualistico, una morbosa rinunzia alla vita, il mondo di idee e sentimenti che vive sotto la realtà poetica di Gozzano ha brevi limiti che, coincidendo con tutto il malgusto spirituale della sua epoca, lo riducono a simbolo di una situazione di «bello annoiato» irresistibilmente fotografico, a quella quintessenza di residui di Giacosa e di educazione deamicisiana messa a reagire con D’Annunzio-Conti, ad una caratterizzazione che colpisce con giusta nemesi un caratterizzatore del Risorgimento meno vero e piú veristico. Gozzano è povero, intimamente borghese, con una tinta superficiale di intellettualità che non convince, chiuso ad ogni ricerca non poetica e semmai avviato a strane autorità naturalistiche da dilettante («l’amore dei cristalli», «la vita delle farfalle»), carico di parole («Tutto», «Nulla») di uno scientificismo filosofeggiante di origine grafiana e l’atteggiamento che si è formato di anima malata, irrimediabilmente arida e pur desiderosa, nella maniera piú ingenua, di sentimentalismo, di amore come sentimentalismo (una eco sventurata della cristallizzazione stendhaliana), è non insincero, ma cosí infantile, che la non serietà verrà solo dalla potenza con cui le qualità costruttive, artistiche lo agiranno in mondi di altre misure.

Estremamente coerente nel suo estetismo poco vistoso e poco avventuroso, egli si libera da ogni direttiva che possa smuovere la sua posizione di assente: niente ideologia, niente passioni ideali; un atteggiamento che potrebbe aver senso vivo in un temperamento piú profondo, ma che resta sul piano di quelle parole con la loro pronuncia peggiorativa quando si confronti con le reazioni di Serra e di qualunque letterato puro che parta da un centro piú profondo delle possibilità che egli attacca. A questo disprezzo dei meccanici, Gozzano arrivava anche da un atteggiamento pessimistico di accatto schopenhaueriano, leopardiano e ohimè grafiano, da un titanismo mingherlino che rivolta i luoghi comuni della polemica uomo-Dio e ne estrae un succo di amarezza che per essere cosí illegittimamente fermentata è languida e inconcludente. A questo disinganno di borghese che crede di avere «il cuore devastato dall’indagine» per aver letto Schopenhauer e Nietzsche e per aver orecchiato una metafisica materialistica a grosse maiuscole, l’aura decadentistica doveva portare l’aiuto provvidenziale di una indicazione di materiale su cui appoggiare il suo bisogno di costruzione senza camparlo su cieli astratti, sul cielo intimo e nudo del proprio animo. Gli indicò non tanto certe morbide consolazioni, veramente un po’ lontane dal suo centro istintivo, come la previsione di una morte cattolica, quanto la poeticità delle cose, e qui pensiamo non solo a Jammes, ma al minimo prezioso accenno dannunziano del Poema paradisiaco, in Consolazione. Tanto bastava al giovane poeta per scoprire in quelle cose centri vivi di suggestione nostalgica, da insinuare entro un abbandono il cui limite ironico difettava di qualsiasi grazia se privo di un materiale resistente da ondulare nelle sue pieghe piú molli. L’esperienza letteraria, mentre lo scaltriva nella utilizzazione di movimenti metrici che adducessero un sapore ambiguo in cosí differente tessuto, gli indicava con le prove dannunziane un’importanza data alla parola che cerca di evocare integralmente una cosa, affidandone la trasfigurazione proprio alla sua bruta presenza, inevitabilmente ricca di suggestioni psicologiche e secondariamente di suggestioni verbali. Ma mentre D’Annunzio punterà tutto, nella sua visione musicale, sull’effetto sensuoso della parola con una violenza lirica di grande poeta che supera la particolare ricerca, Gozzano indugia nel far risaltare tutta la vita della cosa e fin la densità prosastica, la possibile ambiguità tra vita e suono. Cosí, vicino all’ipecacuana, ci sono le cose abitudinarie, amate per quanto reagiscono nella psiche del lettore a rompere l’involucro comune della loro realtà quotidiana. Diremo in proposito che, senza limitare contenutisticamente il materiale poetico del Gozzano che dall’etichetta delle «buone cose di pessimo gusto» discende a tutti gli oggetti che adornano il suo mondo e a quella campagna che, contrariamente ad una tesi comune, ha la sua vita impressionistica non molto diversamente dalle vecchie cose ironizzate, abbiamo sempre notato in Gozzano una precisa volontà poetica che, liberandolo dalla sua realtà psicologica, arriva a controllare minutamente l’effetto della lettura, a calcolare nella presenza del lettore un insieme di risultati basati sul rimbalzo che le «cose» avranno in lui; in quel misto di sorpresa e piacere, di leggero fastidio e partecipazione, di sforzo a liberare la cosa dalla sua ganga prosastica e di sentirla nell’onda della poesia. Tale calcolo ci permette di riconoscere decisiva una volontà letteraria in senso ambiguo: volontà di realizzarsi come uomo, come possibilità insoddisfatta, e come poeta, creatore cioè di un mondo per sé stante, che a un certo punto l’autore può quasi staccare da sé. I limiti umani e poetici di Gozzano si rivelano proprio in questa eccessiva ampiezza del suo bisogno di realizzarsi che, d’altra parte, non ha l’energia e la forma spirituale adatta per una fusione essenzialmente lirica in cui tutte le esigenze si trovino piú divinamente inverate.

Alla base dunque della sua poetica abbiamo notato un calcolo extra-poetico che corrisponde ad una eccellente volontà di costruzione, in cui vive però anche una volontà pratica che crede di difendere la propria superficialità con la facile difesa dell’autoironia. La poetica di Gozzano non differisce, per l’armamentario di cui si serve, da quella degli altri crepuscolari; anche per lui un vago riecheggiamento dei poeti décadents francesi e fiamminghi, il gusto delle cose quotidiane e insieme di certi esotismi che ha in comune con le prime, una tinta che la lontananza sognata e la vicinanza stemperata nello stento delle ore procurano a chi ci si abbandona senza impegno. Come i crepuscolari egli vive di quel mondo tra pascoliano e dannunziano che ha spezzato la grande tradizione italiana aulica e classica, e risente anche dell’insegnamento del fanciullino da un lato e del buon ritiro dall’altro.

C’è in Gozzano, come nei crepuscolari, una ingenua fede iniziale nell’adeguazione di uno stile vuoto, tediato ad una situazione spirituale che si sente vuota e tediata, e quindi in una retorica negazione della retorica piú abituale. Ma l’esilità e l’intima debolezza poetica degli altri crepuscolari limitò la loro poesia ad una espressione, la piú fedele possibile, della loro poetica comune, mentre in Gozzano quella poetica aveva all’attivo una capacità costruttiva e un gusto impressionistico e la possibilità di un sapore, di un calore, aveva soprattutto la capacità di servirsi della poetica crepuscolare come paesaggio, scenario, che rafforzasse la situazione dei suoi poemi e permettesse cosí un abbandono poetico altrimenti impossibile ed enfatico.

Ecco cosí che alla poetica generica dei crepuscolari Gozzano trova una particolare giustificazione poetica non solo per la creazione del tono grigio, del canto «umilicorde», ma soprattutto come condizione del poema, come figurazione di una soprarealtà che pur legata ad una particolare visione della vita è in primo luogo lo scenario di una particolare vita poetica.

C’è un Gozzano piú immediato in cui la poetica crepuscolare è meno presente che altrove, e al suo posto residui di esperienza pessimistica e di poesia alla Graf tengono il posto delle cose, delle stampe, del materiale che piú è suo, e che, mentre lo ricollega ad un costume letterario significativo anche in funzione dello svolgimento della poesia italiana moderna, lo distingue anche per la compattezza e la necessità con cui si presentò nel suo fare. Queste poesie piú immediate, specie di mottetti gnomici stenti e slavati che non hanno piú la saldezza dei sonetti classici e non hanno abbandonato un’ingenua esposizione di favole morali in primo piano, sono senza dubbio la parte caduca e caduta della sua opera.

Poesie come Ignorabimus, La mela, Speranza, Differenza, ecc., denotano una sorta di passi indietro verso le forme facili e incerte dell’ultimo Ottocento, dei minori squilibrati tra volontà di poesia, pensiero e sonorità di verseggiamento. In questi momenti meno costretti dall’ispirazione piú cosciente, spinti da un’urgenza di sfogo, tanto piú forte è l’influenza di atteggiamenti e lingua altrui: tornano alla sua coscienza stilistica le false eleganze del Piacere («di tutti i nostri dolci ingannatori»), o la faciloneria di Danaidi, nella debole condanna del dio del mondo con la beata sufficienza di una ironia di pensiero tra Inno a Satana e gli esercizi piú prosastici degli scapigliati:

Tempo, non entusiasma

saper che tutto ha il dopo,

o buffo senza scopo

malnato protoplasma.

Sono le poesie in cui la autobiografia piú pesante, con l’interesse della sua malattia, turba il controllo di distinzione tra gli elementi di abbandono bruti, divertiti dalla patina di autoironia e gli elementi artistici. Cosí in Alle soglie appena uno sguardo rapido dell’impressionista piú aristocratico balena una radioscopia realizzata poeticamente:

e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco

disegna il profilo di un bosco, coi minimi intrichi dei rami.

Da questo Gozzano minore e trascurabile si staccano epigrammi, distici apparentemente compendiosi che vivono una vita fittizia se vengono staccati nella memoria dal loro meschino contesto («Fratello triste cui mentí l’amore / che non ti menta l’altra cosa bella»), o inizi subito abbandonati perché affidati al primo impeto della costruzione.

Mio cuore, monello giocondo..., ecc.

Non sono dunque gli attacchi biografici ad offrire la possibilità di un sincero atteggiamento poetico, che anzi appesantiscono i punti morti, la sentimentalità interessata e banale, ma semmai l’inserzione in un mondo costituito attraverso le cose della sua poetica di quegli elementi mediati.

Di fronte a quel Gozzano peggiore non proviamo neppure piú la lusinga di un adescamento della moda ormai lontana, e neppure l’incanto piú legittimo della musicalità stanca di certo cattivo Poema paradisiaco. Dato che non siamo disposti neppure a commuoverci di fronte a pseudoarte psicologica, Gozzano, che ci diventa in questi casi esempio di come al brutto estetico si deve rifiutare anche qualsiasi commozione, che vive solo di fronte alle vere sublimazioni del sentimento, deve contentarsi di agire su di noi mercè le sue vere qualità artistiche.

La potenza di queste sue qualità costruttive, architettoniche in senso non classico, ma neppure in senso di un’intima trasposizione sul piano lirico che dissolve ogni architettura in linea musicale assoluta (l’Infinito; l’Après-midi), è rivelata dall’esistenza di ambienti fatti col materiale crepuscolare a volte crudamente esposto a suggerire unilateralmente quella vita che alla poesia sfuggiva, ma organicamente resi veri ambienti, veri paesaggi in un tempo creato, fissato entro la misura di un componimento che taglia nettamente la realtà ideale che Gozzano scopriva. Se non si può negare che la creazione di un paesaggio riesce anche a poeti non grandi in cui il limite è proprio un’architettura che non si scioglie in musica, certo per Gozzano bisogna precisare che questa convalida di poesia è avvivata dalla ricerca, entro quel primo lavoro dell’immaginazione, di un suo compenso tutto poetico, di un abbandono assicurato da quella difesa dalle empiricità e dal cattivo gusto. Allora il poeta trova la sua posizione emotiva, la sua liberazione piú pura, non deve surrogare quella difesa con un’esplicita e banale ironia che incide su ogni particolare, con la sua sfocata acerbità, nelle poesie meno costruite, nelle poesie in cui cerca un immediato paesaggio interiore senza radici in un mondo umanamente superficiale. Quando egli ha invece il coraggio di ritardare la presenza dei suoi sentimenti piú urgenti, sorge in lui il limite del poema, del componimento poetico: sono cosí «poemi» (ci si scusi l’uso di questa parola piú solitamente sostituita da «poemetti» di troppo pascoliana memoria) le poesie che piú resistono al tempo, il giudice piú autorizzato per i poeti di limitata originalità. Questo tipo di costruzione non ha anche in Italia che pochi esempi di fronte alla tradizione romantica dei poemi di Vigny, Hugo, ecc. E ci si potrebbe fare un certo discorso che invece tralasciamo per il caso concreto di Gozzano, per la sua incapacità a vivere liricamente fuori di una precisa situazione, compositivamente delimitata.

Spesso è addirittura uno sforzo a cogliere un’inquadratura serrata fra due trovate costruttivamente culminanti, entro cui lasciare scorrere piú liberamente l’onda poetica che, nella situazione, il poeta ha saputo evocare: cosí in Invernale, dove la poesia è stretta fra l’iniziale «cri i ..i ..i ..icch» (con una piccola pausa grafica che indica le sobrie audacie di Gozzano) e la fine incisiva, epigrammatica:

Signor mio caro, grazie! E mi protese

la mano breve, sibilando: Vile;

cosí in Cocotte dove dall’avvio del preciso ricordo, quasi ad un senso di dialogo, la poesia si spenge con il bacio malinconico della cocotte, oltre il quale la tirata dell’amante delle donne che non sono piú non aggiunge nulla alla poesia e al nostro ricordo. Naturalmente gli esempi piú tipici (non Torino in cui la stampa è fine a se stessa) portano con sé una certa sbavatura di sentimentalismo, che è come la garanzia che quel poema è stato riempito di commozione, di vita intera, di una poesia che dal profumo delle «cose poetiche» e dalla precisione della costruzione, anche se meno palese, trae un senso di vita, un sentimento impressionistico su basi solide, sul concorso di tutti i suoi mezzi, sulla sicurezza di non esser né prosa né lirismo composto su cieli vuoti. Naturalmente anche un eccesso di costruzione porta a volte un prepotere delle determinazioni ambientali che egli crede di equilibrare con tanta piú autobiografia e con la forza dei finali inaspettati e risoluti, come in Responso con la soluzione finale del carattere della «belle dame sans merci» da salotto borghese. E certo anche dalla collaborazione di costruzione, materiale poetico, impressionismo sulla base di un sentimento liberato dalla poetica, la poesia ha spesso una certa legatezza che la priva di quella vita polisensa che non manca mai alla grande poesia: è uno strato di colore, gustoso, intonato, carico di aria e di luce, ma fino ad una certa altezza, come se avesse un limite verticale nel suo spazio poetico. Se si pensa alla Amica di nonna Speranza si ammira un raro equilibrio, una coerenza che difficilmente ritroviamo in poeti anche piú grandi, ma nella manteca di lirismo prodotto dal ritmo rallentato della vita quotidiana del passato condotto ai suoi limiti piú gustosi e pericolosi, senza mai veramente cadere, è troppo assente un’aria che eternizzi, non caratterizzi quella perfetta situazione. Solo a un tratto uno di quegli inizi tra appassionati ed ironici innalza quella civile, educatissima poesia:

oimè, che giocando un volano...;

ma essa ha già in sé una dosatura quasi epigrammatica che non estende quel momento piú vivo al resto della poesia. Ed anche in Paolo e Virginia, poema perfetto nella sua coerenza stilistica, si sente che l’adempimento completo di tutti i suoi impegni non lascia qualcosa di piú, quel di piú che deve sempre superare la misura dei componimenti. Antologicamente i poemi che restano piú ricchi di poesia sono la Signorina Felicita e Le due strade, e intorno ad essi gravitano tutte le qualità gozzaniane, di costruzione, di calcolo nella scelta del materiale poetico, di poeticità preveduta nel possibile lettore, di ritmo del suo sentimento abbandonato e geloso di vita con una vivezza impressionistica, coerente però alla sua piú complessa poetica. In quei due poemi il paesaggio si fa piú ricco di direzioni, di colori, di macchie che inducono un’aria piú ventilata, danno alla costruzione perfetta una vivacità che è della buona poesia. Anche lí vi sono punti morti, connettiture, ma tutta la luce che ne nasce non è quella di una novella, ma quella di un mondo estraneo alle misure terrene:

tra lande verdi gialle...

la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose.

Questi risultati cosí cari di impressionismo solido e sano, fioriscono però entro un paesaggio, una costruzione di poema, mediante una collaborazione di poetica e doti naturali che danno alla poesia realizzata un valore che è l’unico a resistere fra i grandi dell’ultimo Ottocento e i nuovi poeti della generazione postsimbolistica. Non tanto l’ultimo di un tipo di poesia o senz’altro l’ultimo della poesia, ma un breve nucleo saldo, un esempio raro di costruzione che non impedisce, anzi agevola una freschezza impressionistica, un positivo insomma, se legittimamente limitato, nelle nostre lettere, nelle nostre consolazioni poetiche.